Film

LA FILOSOFIA DI PAOLO SORRENTINO

E sui due equivoci di cui è vittima.


Uno dei passatempi attuali, in un’epoca in cui evidentemente non si riconosce la giusta importanza da attribuire al Tempo, il che vuol dire alla Vita, è quello di criticare (ovvero parlare male) del cinema di Paolo Sorrentino. Che degli attuali parlino male di un inattuale è tutto sommato abbastanza coerente. Ma mi incuriosisce sempre il modo con cui ciò accade, perché mi serve a capire quale artificio di volta in volta si inventa la miseria umana allo scopo di vivacchiare. Ammetto che, essendo il Poeta un mio connazionale (nel senso di cittadino di Parthenope) io possa essere tendenzialmente (spero non tendenziosamente) più vicino a lui che ai suoi accusatori. Fatta tale ammissione psicologica, passo alla rappresentazione dei due equivoci che a mio parere pesano sull’arte del giustamente famoso regista, equivoci che mi permetteranno ad un tempo, secondo un classico schema dialettico, di illustrarne la poetica. Anticipo che il primo di questi equivoci riguarda esclusivamente il suo modo di rappresentare l’animo umano attraverso la macchina da presa, il secondo invece è incentrato sul fatto che quella sua stessa arte appartenga più in generale all’espressività napoletana, con la conseguenza che il secondo di questi due equivoci si allarghi da Sorrentino ad una intera generazione di tragici e alla città che li ha partoriti, come avrò modo di illustrare.

Il primo di questi equivoci lo possiamo identificare con una ormai frase fatta che riguarda il cinema del poeta napoletano, ovvero: “Nel cinema di Sorrentino non esiste una trama complessa”. Come accennavo, dunque, questo primo equivoco riguarda l’espressività, il modo in cui, soprattutto da La grande Bellezza in poi, il regista tende ad evocare quel groviglio di sensazioni che attanagliano il suo spirito in una età dove un uomo, alla maniera dello Spirito di Hegel, comincia a riflettere su se stesso, a cercare di autodeterminarsi, ad assolutizzare ciò che in passato viveva in maniera sofisticamente spensierata. Quell’età in cui si dà valore alle cose quando esse non ci sono più, quando un uomo passa dalla “animalità” alla “umanità”; quando un uomo vive di meno e pensa di più. In termini non filosofici, questa viene chiamata Nostalgia.

Come lo stesso Sorrentino ha affermato in alcune interviste, da maturi si diventa più poeti, più evocativi. Ciò non vuol dire che si diventi meno produttivi, come solitamente si tende a vedere oggi l’umanità in fase avanzata, ma semplicemente più sistematici. È come quando si raccolgono e si catalogano i dischi e i libri della propria giovinezza sistemandoli secondo un ordine preciso allo scopo di renderli più fruibili. Si riordinano gli oggetti del nostro passato così come si riordinano le proprie idee. E quante volte capita, anche a noi che non siamo poeti, di essere sorpresi, mentre ci troviamo distesi sul letto, da un pensiero nostalgico, forse indotto da un odore familiare che improvvisamente arriva alle nostre narici. Ci sentiamo nostalgicamente catapultati in un flash del passato, con quella dolce sensazione di riviverlo. La gioia che proviamo è di difficilissima evocazione. È proprio per questo che esistono i poeti come Sorrentino, ovvero coloro che sanno tradurre in immagini, in parole o in musica quello che ciascuno di noi prova e che tuttavia non sa come esprimere. Insomma, siamo più alle prese col rendere lineare e comprensibile ciò che abbiamo vissuto piuttosto che creare nuove trame di vita. Viviamo, per così dire, con la volontà di raccogliere nostalgie, proprio come la musica di quei dischi. Deve essere, questa, proprio una tendenza naturale se è vero che mentre i dischi li raccogliamo per nostra volontà i ricordi ci sovvengono invece del tutto spontanei.

Il cinema di Sorrentino, da La grande Bellezza in poi, viene accusato dunque di essere quasi privo di trama. Io mi chiedo come, alla luce di quanto da me pur maldestramente detto sopra, ci si possa meravigliare di questo. La cosa diventa ancor più indisponente quando a commettere questo errore sono persino uomini che, parafrasando Eduardo: “Hanno la penna in mano!” È del tutto ovvio e conseguente il fatto che il cinema attuale (ma inattuale) di Sorrentino, preso dalla evocazione della nostra interiorità, sia caratterizzato da un lato da trame molto lineari e, dall’altro, al contrario, da immagini superbamente evocative quanto inesplicabili e da un profondo parlare aforistico. È del tutto ovvio che non sia presente nei suoi film attuali (ma inattuali) una ingarbugliata trama esterna dal momento che il genio napoletano vuole dipanare quell’intricata e labirintica trama dello spirito. Si tratta qui proprio del processo inverso: non ingarbugliare il semplice (creando una trama) ma sbrogliare la complessa trama dell’anima. La trama del mondo esterno diventa semplice evocazione della trama del mondo interiore, una sua espressione lineare. La trama, dunque, nel poeta c’è ma è nascosta dentro di lui, è quella della sua interiorità. Per Sorrentino la trama diventa quello che è la nebbia per Totò: “C’è ma non si vede!” E cosa cerca appunto di fare un poeta di quella trama spirituale che lo attanaglia se non tentare di dipanarla, di rendere dunque apollineamente legiferabile ciò che gli appare una matassa ingovernabile?! Il processo a cui si sottopone un poeta è dunque opposto a quello a cui abitualmente si sottopone l’uomo comune: semplificare (non nel senso di rendere superficiale) ciò che si palesa complesso ed inestricabile. D’altra parte si sa che la Poesia non ha trama. Si potrebbe dire che più un film ed un romanzo si avvicinano alla Poesia meno trama si troverà al loro interno. A questo punto potrei dire che Sorrentino sarà diventato un massimo poeta cinematografico il giorno in cui avrà realizzato un film senza alcuna traccia di trama, eppure capace di essere evocativo ed entusiasmante come nessun altro. Io confido molto che il mio connazionale greco possa raggiungere tale vetta. A proposito di poeti e di tali vette voglio ricordare un grande racconto di Edgar Allan Poe, il più evocativo di tutti, intitolato L’uomo della folla. Non è un caso che quello sia il racconto in cui il grande poeta americano non disegna alcuna trama, essendo la trama tutta compresa nell’animo del protagonista alle prese con un misterioso uomo che manifesta una inspiegabile “fame di folla”. Quando vedo un film di Paolo Sorrentino, mi viene sempre in mente quel racconto. A tal proposito, da filosofo a poeta, invito il mio compagno greco a realizzare un giorno un film basandosi proprio su quel misterioso racconto. Chissà non possa essere la volta in cui il regista trovi la propria massima evocazione.

Il secondo equivoco di cui è vittima Sorrentino, come anticipavo, è un equivoco che lo riguarda come napoletano. È un equivoco condominiale, potremmo dire! Questo è un equivoco che, a mio sempre modesto parere, è indissolubilmente legato alla struggente Bellezza di Napoli. Seguitemi bene e capirete.

Voi tutti uomini colti ed istruiti sapete che nessuno si permetterebbe (neanche di pensare) che siccome l’Amleto di Shakespeare si svolge nel Regno di Danimarca le sue tematiche riguardino solo i danesi. Tutti voi sapete benissimo che i travagli spirituali del principe Amleto sono quelli di un qualsiasi uomo, si tratta dunque di travagli universalmente riconosciuti e riconoscibili. L’Amleto potrebbe svolgersi a New York come a Pechino, nell’Atene antica di Platone come nella Atene attuale di non so chi. Altrettanto, sempre voi colti ed istruiti, che recentemente accusate Sorrentino di essersi troppo arrotolato attorno alla sua napoletanità, sapete benissimo che mai c’è stato qualcuno che abbia immaginato di confinare “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello nella cultura della Sicilia in cui si svolge la storia del protagonista. Siete ben consapevoli che il terribile tema del “relativismo psicologico” evocato da Pirandello attanaglia qualunque spirito umano, dagli Appennini alle Ande. Eppure, quando si tratta dei tragici napoletani, tutto viene ridimensionato (se non artisticamente, almeno geograficamente e soprattutto culturalmente) a Parthenope. Basti pensare, tanto per fare un esempio, a “Natale in casa Cupiello” di Eduardo. Qui il senso di universalità, che pure è presente (altrimenti non si tratterebbe di arte ma di artigianato), viene misteriosamente ridotto alla particolarità napoletana. Evocando l’Eduardo di Napoli milionaria a proposito di quella paradossale figura del ladro tutto napoletano, si dice che la tragedia “Natale in casa Cupiello” è stata certamente realizzata e che non poteva essere realizzata se non a Napoli (come il famoso furto del piroscafo con tutto il carico fatto come esempio da Eduardo). Perché si tende a non riconoscere ciò che di universalmente tragico (ed universale proprio perché tragico) c’è in quella tragedia di Eduardo?! Perché non si riesce a capire, o si fa di tutto per fare finta di non capire, che in quella tragedia il poeta napoletano evoca quello scontro che attraversa ogni epoca ed ogni luogo, perché appartenente all’uomo in quanto tale, ovvero lo scontro tra la generazione del passato e quella del presente, tra le radici da cui si è nati e le nuove radici da cui si vuole ripartire?! Perché non si vuole capire che il Presepe rappresenta per Lucariello il suo appiglio a qualcosa di Assoluto, così come per Ninuccia esso è nella volontà di autodeterminarsi, di credere od illudersi di aver trovato l’Amore vero?! E non è quel tema della ricerca di Assoluto davanti ad un Tutto che scorre inesorabilmente lo stesso tema che si sente nell’arte cinematografica di Paolo Sorrentino?! Che cos’è quella Grande Bellezza, da lui immortalata nel suo film più riconosciuto, se non quella “cosa in sé” kantiana che, sotto la superfice fenomenica, che pure rappresenta il nostro mondo reale e vivo (non apparente), rimane inalterata, così come la nostra memoria delle emozioni giovanili?! Detto in termini non filosofici, la Grande Bellezza non è sempre quella nostalgia che universalizza il nostro vivere, che ci unisce come uomini?!

Eppure tutta questa tragicità sembra che appartenga solo alla napoletanità allorquando viene messa in scena da un tragico napoletano. Ho fatto l’esempio di Eduardo ma avrei allo stesso modo potuto fare quello di Viviani. Come ho già sussurrato, deve essere quella struggente Bellezza di Napoli a condannarci alla particolarità, così come a volte un’inaudita bellezza può costringere una donna ad una feroce solitudine. Forse, come fa un nevrotico, che relega nell’inconscio ciò che non riesce ad affrontare, l’umanità vuole chiudere nei confini di Parthenope ciò che di più terribile gli appartiene, nel timore di sfidarlo.

Paolo Sorrentino, così, è piacevolmente costretto ad essere un poeta, perché a quella realtà, in quanto napoletano, in quanto greco, non può in alcun modo sfuggire. E forse proprio questa sua inconscia e terribile consapevolezza lo ha spinto a realizzare il film Parthenope, questa nuova tragedia dell’umano sentire, universale eppure particolare.

Buongiorno a tutti!

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